Alcune tecniche, materiali e linguaggi del jazz contemporaneo

Di seguito il pdf completo di partiture e la premessa della dissertazione che ho avuto il piacere di elaborare per il Conservatorio “F. Venezze” di Rovigo.

PDF Alcune tecniche, materiali e linguaggi del jazz contemporaneo

In questa tesi raccolgo elementi che hanno caratterizzato il mio percorso musicale in particolare dal 2009 ad oggi.

Nel 2014 sono stato in tour in Italia con Miles Okazaki, chitarrista newyorkese che ha a lungo suonato con Steve Coleman, e ho avuto modo di venire in contatto con alcuni contenuti ritmico- melodici come  pitch class set e cicli ritmici. 

Nel 2015 sono stato assistente di Steve Lehman in due occasioni: il seminario tenuto a Venezia nell’ambito del progetto Musicafoscari dell’ateneo universitario e a Bologna presso il Conservatorio Martini, dirigendo l’ensemble degli studenti, che si è poi esibito nell’ambito del Bologna Jazz Festival eseguendo composizioni di Lehman stesso. 

Sempre nel 2015 ho fatto da assistente ad Amir ElSaffar nell’ambito della residenza di dieci giorni tenuta sempre presso l’Ateneo ‘Ca Foscari, nella quale abbiamo lavorato esclusivamente su composizioni di ElSaffar, la modalità del maqam, la microtonalità e i modi ritmici della musica araba. Da questa esperienza è scaturita una collaborazione che si è concretizzata nella registrazione del cd “Saadif” (Hyper + Amir ElSaffar, 2016, nusica.org), cui sono seguiti tour e concerti in Italia.

Altri brani contenuti in questa tesi sono tratti da tre dei cinque cd incisi da XYQuartet (Spazio Angusto, Titov, No Evidence), altri ancora inediti come Elgotar Bengotar e Antroposophy.

Un percorso questo che ha seguito l’evoluzione almeno di una parte del linguaggio jazzistico che ho sentito affine e che mi ha consentito una ricerca stimolante dal punto di vista sociale oltre che artistico e creativo.

Il linguaggio del jazz, a mio parere, sta vivendo un processo di forte specializzazione allontanandosi, almeno apparentemente, dalla tradizione di matrice afroamericana; il repertorio degli standard e delle song è progressivamente scomparso dalle scalette di concerti e dischi; in sua vece troviamo composizioni per lo più originali, dalle più disparate influenze artistiche, dal pop alla contemporanea, dal folk all’elettronica, dalla sperimentazione al rock e al prog.

Possiamo forse oggi affermare che ci troviamo di fronte a una trasformazione del jazz, parafrasando la linguistica, da quella che forse non era una lingua unitaria, ma un insieme di dialetti facenti capo a un ceppo originario, a degli idioletti, costruzioni linguistiche individuali.

Va considerato comunque che il jazz è studiato e praticato ad ogni latitudine e che quindi è inevitabilmente, e si spera in modo fertile, rielaborato in funzione di tradizioni locali musicali, per quanto in un mondo globalizzato sia sempre più difficile riscontrare differenze, principalmente a livello di mercato musicale dominante, se non di creatività individuale, che spesso fatica a trovare il giusto riconoscimento.

Molti artisti di jazz contemporaneo sviluppano un percorso artistico che ricorre in modo post-postmoderno a tecniche estremamente sofisticate, per acquisire le quali non è sufficiente un generico percorso di studi ma un grande approfondimento. Per citare alcuni degli autori compresi in questa dissertazione cicli ritmici e movimenti simmetrici di Steve Coleman, multiritmie e spettralismo di Steve Lehman, microtonalità e maqam di Amir ElSaffar richiederebbero, se non lo studio di una vita, lunghi percorsi specialistici dedicati.

Non che nella storia del jazz non fossero presenti elaborazioni sofisticate e originali del linguaggio afroamericano ma in molta parte del jazz contemporaneo non si tratta più di stili e innovazioni ma di vere e proprie riformulazioni di concetti fondamentali degli elementi linguistico-musicali.

Altro elemento di grande innovazione è il ricorso alla tecnologia sia da un punto di vista performativo, con l’uso di effetti ed elettronica, sia da un punto di vista della scrittura e della composizione con software e programmi (ad es. scrittura con Sibelius e Finale, composizione con Orchyds o software come Logic e Cubase ) che influenzano inevitabilmente i processi creativi e consentono di progettare sonorità prima difficilmente realizzabili, analogamente a quello che è avvenuto nell’architettura con l’avvento dei programmi di grafica e la scoperta di nuovi materiali, che ha consentito, vedi ad es. Frank Gary, di immaginare e progettare nuove forme che sembrano sfidare tutte le regole e principi del passato. Con le tecnologie attuali si possono immaginare e realizzare architetture sonore estremamente ardite, che pongono anche alla musica acustica nuove frontiere di competenze esecutive. Tra i primi a realizzare esperienze di questo tipo possiamo annoverare Shaeffer, Xenakis, Stockhausen e, tra gli italiani, Berio e Maderna.

Sembrano lontane le epoche più o meno leggendarie degli head arrangements. Nondimeno, e questo consola rispetto alla prospettiva di una musica ipertecnologica, molti grandi artisti considerano ancora la trasmissione orale un elemento imprescindibile dell’assimilazione di nuove tecniche e il processo audiotattile e di biofeedback rimane un elemento cruciale nel percorso didattico.

Se apparentemente questi nuovi materiali sembrano essere distanti dal jazz tradizionale in realtà possiamo individuare relazioni profonde con le radici della musica afroamericana:

Ad es. il ricorso alla microtonalità è più vicino ai canti dei pigmei Aka o alla musica occidentale? E in relazione ad alcuni livelli di complessità ritmica ci sentiamo analogamente di collegare questi alla musica di matrice eurocolta o a quella africana? E l’analisi delle classi di insiemi non è forse essa stessa un tentativo enciclopedico di riorganizzazione di materiali armonico-melodici, compresi quelli del jazz, che sembrano sfuggire alle categorie dell’armonia funzionale?

In questo senso il jazz sembra animato da una doppia valenza: uno stretto rapporto con la tecnica e quindi con un’idea di modernità, lì dove il sapere della conoscenza di determinate nozioni è imprescindibile e funzionale all’espressione artistica, e dall’altra la consapevolezza della limitatezza della tecnica stessa, nella misura in cui ogni tecnica è funzionale all’espressione individuale.

Il processo imitation-assimilation-innovation, caro a tanti musicisti jazz, stabilisce un percorso che parte già da un concetto non astratto e assoluto di tecnica.

  • Il processo imitativo richiama la mimicry, il mimetismo, l’imitazione di altro da sé.
  • Assimilation sembra essere un processo di embodiment di natura più psicologica che logica.
  • Innovation è il processo di individuazione della propria personalità all’interno di una collettività.

Questo processo di apprendimento complessivamente sembra essere simile a quello linguistico, lì dove l’assimilazione di un linguaggio, si pensi a quello infantile e alle teorie di Piaget, procede attraverso diversi stadi di assimilazione e adattamento.

Se il linguaggio musicale del jazz presenta delle analogie con quello linguistico può tornarci utile quell’armamentario di figure retoriche utilizzate in musica tra il XVI e XVII definito “musica poetica” dove si stabiliva una stretta relazione tra linguaggio poetico e musicale. Passato in secondo piano nell’Ottocento, lì dove una visione romantica tende a far prevalere una visione “organicista” della costruzione musicale, l’uso di figure retoriche rimane comunque presente, sotteso e implicito nella musica fino alla contemporaneità: basti pensare a climax, tesi/antitesi, anastrofe (inversione), tutte figure retoriche tuttora presenti nella prassi musicale.

Jeff D. Erikson ha pubblicato una interessante dissertazione dal titolo “Signifying on the Greeks: the use of rethorical devices in jazz improvisation analysis”1, in cui i numerosi esempi tratti dalla retorica classica vengono arricchiti da quelli di origine africana, stabilendo così una serie di elementi utili all’analisi di tecniche e strumenti espressivi anche del jazz contemporaneo.

1“Signifying on the Greeks: the use of rethorical devices in jazz improvisation analysis”, Jeff D. Erikson, University of Illinois at Urbana-Champaign (2015)

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